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20/9/2025
Disequilibri Dinamici
by Edoardo Tabasso

L’uomo si autodefinisce in termini di progenie, religioni, lingua, storia, valori, costumi e istituzioni.
Samuel P. Huntington

 

Ci troviamo, dunque, oggigiorno, non solo qui in Italia ma ovunque nel mondo, in una situazione forse non inedita ma 224 certamente complicata, che ridefinirà i rapporti politici tra gli Stati e la loro geopolitica. In un frangente storico di disagio co mune è necessario sviluppare nuovi sguardi. Imparando ad avere il coraggio di partire, imparando a non avere paura di tornare. Tornare per raccontarsi tutto. E il ritorno può essere la risposta che consola e dà valore alla nostra irrequietezza e alle nostre pau re, alle nostre isterie. La dimensione del ritorno è essenziale anche per rimettersi poi cammino. Come Ulisse che torna a Itaca e quel luogo non è più come lo aveva lasciato: la sua casa e suoi familiari sono derisi impoveriti, indifesi, forse rassegnati. Le retoriche del «nulla dovrà essere come prima», perché «solo così ritorneremo umani», sono ispirate da analisi apocalittiche del presente, che lo giudicano assolutamente negativo e non riforma bile. Strategie comunicative che si attribuiscono funzioni salvifi che dentro una visione religiosa, astratta, totalitaria, delle politica perché fondata su «idee semplici» e «passioni elementari». come già ci ammoniva Nicola Matteucci a proposito del Sessantotto. Nella storia dell’umanità il futuro è sempre stato problematico; ansie ed insicurezze, epidemie, emergenze sociali, guerre militari, scontri culturali e religiosi hanno sempre caratterizza to la vita degli uomini e non ci sono sufficienti motivi per dire che la vita nelle culture tradizionali fosse più equilibrata di quella odierna. Le circostanze della nostra esistenza oggi non sono di ventate meno prevedibili di quelle che erano un tempo; piuttosto sono cambiate le origini dell’imprevedibilità. Molte delle incer tezze che ci troviamo ad affrontare sono state create proprio dalla crescita della conoscenza umana. All’aumento delle possibilità di scelta e alle nuove opportunità che ci vengono offerte oggi ri spetto al passato è corrisposto anche un aumento dell’incertezza per la complessità che la crescente interdipendenza tra culture, processi, eventi e persone tende a creare. E un numero crescente di cittadini ha la sensazione di aver perso il controllo sul proprio destino. Si vive e si agisce in contesti interculturali, che sono assai complicati da interpretare e capire; anche perché la vulgata corrente del multiculturalismo globalista tende ad appiattire le differenze e a cancellare i problemi. Il processo di secolarizzazione radica le, attivatosi nel contesto della società democratica dei consumi, operava, a livello sociale diffuso, predicando la facilità e la trasparenza e premiando l’opinione più estemporanea e il desiderio più immediato. Se la realtà è trasparente e il mondo sociale è facilmente comprensibile, viene meno la necessità di attivarsi per cercare informazioni per imparare come stanno le cose, per ca pire cosa si può provare a fare e si deve provare fare. Le opinioni hanno tutte pari dignità e lo spontaneismo regna sovrano. Solo diritti e niente doveri. Esiste una domanda politica legittima e comprensibile trasversale a tutti i ceti nazionali: l’autodifesa di società che si sentono impoverite e minacciate. A questa domanda nessuna risposta di buon senso è arrivata da un’élite oramai “liquida”, postmoderna, multiculturale, tecnocratica, senza senso autocritico perché inca pace di trarre una lezione dai propri errori di percorso. A questo proposito è imperdibile l’analisi irriverente di David Goodhart espressa nel suo The Road to Somewhere: The Populist Revolt and T he Future of Politics, dove si distingue tra i somewhere, i «da qual che parte», quel 50 per cento di persone che vive dov’è nato, che pensa prima ai vicini di casa che ai rifugiati e che non ha quali f iche particolari, ma che un tempo aveva una dignità e che ora si ritrova continuamente vilipeso dall’altra tribù, gli aristocratici, definiti anywhere, cosmopoliti irriducibili che stanno «da qualun que parte», quindi in nessuna parte. Sono coloro quelli che hanno i diplomi e la conoscenza per stare bene ovunque e che, pur rappresentando solo il 20-25 per cento della popolazione, dettano in modo egotistico un’agenda politica mascherata però da attitudini in overdose di buonismo altruista e sentimenti compassionevoli. Le parole d’ordine degli anywhere sono, a prescindere, progres so, apertura, individualismo e per rendere cool, distintivo, il loro status e il loro potere hanno bisogno di continue conferme che i media mainstream offrono di buon grado. Sono gli stessi membri appartenenti a quella classe dominante descritta da Angelo Code villa in The Ruling Class: How They Corrupted America and What We Can Do About It, oppure da Christophe Guilluy nei saggi La France périphérique e Le crépuscule de la France d’en haute, da Ri chard Reeves in Dream Hoarders: how the american upper middle class is leaving everyone else in the dust, solo per citare alcuni saggi usciti negli ultimi anni che approfondiscono questa new class. Quest’ultima è un prodotto sociale ibrido, trasversale e liqui do emerso nella recente globalizzazione e in collusione diretta con quello che Jean Claude Michéa, autore de Le Complexe d’Orphée: la gauche, les gens ordinaires et la religion du progrès, definisce il Partito dei media e del Denaro. Una nuova classe di vincitori che prendono tutto, impegnata perfino in un’azione pseudo-evange lica di altruismo commiserante e ipocrita perché vuole cambiare il mondo degli altri senza mettere in discussione il proprio, come argomenta con paradossale ironia Anand Giridharadas nel vo lume Winners take all. The élite charada of changing the word. Il crollo del muro di Berlino e dell’Unione Sovietica segnarono la vittoria di coloro che al conseguimento di quell’obiettivo inatteso avevano dedicato tutte le loro energie politiche. Ma per un con corso non ancora del tutto esplorato di circostanze e di strategie, nel 1989 non è “finita la storia”. Quello spartiacque comincia a segnare l’inizio della crisi delle liberaldemocrazie che cominciarono ad erodere la loro attrazione politica e sociale fondata sulla  svolta riformista lanciata da Franklin Delano Roosevelt – con il discorso del 1941 delle Quattro libertà di cui ogni persona nel mondo dovrebbe godere: libertà di espressione, religiosa, diritto ad un livello di vita adeguato e libertà dalla paura della guerra e dei conflitti –, da John Maynard Keynes e da William Beveridge con la creazione del welfare state e la piena legittimazione, teorica e pratica, dell’intervento dello Stato nell’economia per sostenere la domanda globale di beni e servizi e garantire la piena occupazione. Può accadere, è già accaduto, che ottime intuizioni diventino un ostacolo per il futuro, proprio per la difficoltà di riadattare, in un diverso contesto, l’essenza di quelle intuizioni non avendo il coraggio di abbandonare qualsiasi forma che non sia più in grado di esprimerle. La sfida politica rappresenta una sveglia perché, come custodi del canone e della civiltà occidentali, dimensione dell’anima e della politica, non abbiamo più tempo per continuare a perseverare negli errori e nel prolungare la nostra agonia politica a causa dell’inadeguatezza di istituzioni nazionali e sovranazionali. Le classi dirigenti provano a difendere il vecchio quadro culturale, ma smarriscono capacità di indirizzo e mostrano incapacità nel riadattare il potere in virtù e in valori politici quali lo spirito di sacrificio e l’assunzione del rischio personale per gli interessi generali. È nei momenti storici di crisi che deve riemergere il dovere di rischiare al fine di superare le regole consolidate, che non valgono più nulla, se si vuole dimostrare una reputazione all’altezza di leadership. Diversamente, si “tira a campare”.