28/7/2025
A bell for Adano
by Edoardo Tabasso
Alcuni non camminano del tutto, altri
camminano lungo le strade maestre, pochi
attraversano i campi
H. D.Thoreau La “rivincita della Storia” e la “vendetta della Geografia” sono concetti ispirati a Robert David Kaplan e al suo saggio del 2012 The Revenge of Geography. What the Map Tells Us About Coming Conflicts and the the Battle Against Fate, che parla di una «vendetta della geografia» e di «battaglia contro il fato». Un ritorno delle crisi locali, intese come nazionali, e della geopolitica rispetto alla globalizzazione tecnologica e finanzia ria. Se vogliamo conoscere la prossima mossa di Russia, Cina o Iran, non basta leggere i loro giornali né domandarsi cosa han no scoperto le spie, ma dobbiamo consultare una mappa perché la geografia può rivelare gli obiettivi di un governo tanto quanto le sue riunioni segrete. Kaplan riconosce che il territorio come soggetto politico non sia stato annullato dalla comunicazione istantanea né dall’economia post-materiale. Una prospettiva che riconosce quanto le relazioni internazionali siano governate dal realismo politico e da quella che, per i realisti, è la sfida cen trale negli affari di politica: chi può fare che cosa a chi? E come la risposta sia condizionata dagli affari interni dei singoli paesi. Per amministrare il mondo il suggerimento di Kaplan è quello di concentrarsi su ciò che divide l’umanità anziché su ciò che la unisce, come avrebbero invece voluto fare gli ideo logi della globalizzazione estrema. Il realismo ha a che fare con il riconoscimento e l’accettazione di quelle forze che sfuggono al nostro controllo e che pongono dei limiti all’azione umana: la storia, la cultura, la tradizione, le passioni, le guerre, le epi demie, le paure, le civiltà e, appunto, la geografia. Dobbiamo sforzarci di stare dentro la realtà boots on the ground, perché siamo ancora “storici”, siamo ancora “fisici”, siamo ancora “geografici”, proprio come gli eroi del romanzo di John Hersey pubblicato nel 1944, intitolato A bell for Adano ambientato in una cittadina siciliana, Adano, nei mesi appena successivi allo sbarco delle truppe alleate nell’estate del 1943. La vicenda ha come protagonista il maggiore dell’esercito statunitense, Victor Joppolo, e narra i suoi tentativi nell’accattivarsi le simpatie de gli abitanti. Joppolo fa ripulire il porticciolo dei pescatori dalle mine, rimpiazza la campana del campanile del paese – da cui il titolo del libro –, permette alla gente di usare i carretti trainati da cavalli contravvenendo agli ordini del suo generale. Si mette in coda con gli altri, come un comune cittadino, davanti al ne gozio del panettiere. Riesce quindi a conquistarsi la fiducia e la gratitudine, adattandosi alle circostanze, usando una varietà di metodi e una “cassetta degli attrezzi” attraverso i quali tuttavia l’uso riflessivo pragmatico e realistico della forza militare è centrale per raggiungere obiettivi che rimangono politici. Nella “rivincita della storia e nella vendetta della geografia” da incentrare sul realismo politico e non sull’emotività riscopriamo che le persone non sono interessate solo a soluzioni economiche. Cercano rappresentanza, forza interiore, empatia, senso della comunità. In una parola, cercano identità politica in grado di sussumere identità religiosa, sociale, di ceto, etnica. Ed è illusorio pensare che siano sufficienti soluzione tecnocratiche di fronti a scontri culturali e sfide politiche, ovvero a problemi di come si condividono valori e risorse. Conflitti culturali descritti da James Davison Hunter nel libro Culture war. The struggle to define America del 1991. Secondo lo studioso, dopo il Sessantotto e la rivoluzione post-materialista degli anni Settanta e Ottanta, i grandi conflitti politici si sarebbero rivolti non tanto verso le questioni economiche ma verso quelle identitarie: religione, aborto, diritti delle minoranze, femminismo, etc. La tesi di Kaplan ha delle analogie con le analisi di alcuni studiosi, Samuel P. Huntington in primis, ma è complementare anche con quella di Joel Kotkin pubblicata in articolo di “Newsweek” nel 2010 dal titolo The new world order Tribal ties, race, ethnicity, and religion are becoming more important than borders. Kotkin ha avuto l’idea, controversa e fuori dalle letture convenzionali e politicamente corrette, di pubblicare un nuovo mappamondo che raggruppa tutti i paesi in nuove aree. Per l’autore, al di là dei confini politici, si sta delineando una nuova mappa del mondo reale, disegnata per affinità culturali, etniche e comportamentali. «Nel mondo intero – sostiene Kotkin – una rinascita di legami tribali sta creando nuove reti di alleanze globali più complesse. Se una volta la diplomazia aveva l’ultima parola nel tracciare le frontiere, oggi sono la storia, la razza, la religione e la cultura a dividere l’umanità in nuovi gruppi in movimento». Argomentazioni che sono una sonora sberla agli ultraglobalisti, perché etichette come progressisti antirazzisti ambientalisti, pacifisti progressisti, liberisti possono senz’altro eccitare le élite, ma rimangono speculazioni astratte e opportunistiche valide al massimo per un tweet o un post. Per i “popoli”, invece, il concetto di “tribù” e il legame con valori identitari, comunitari e nazionali sono decisamente più coinvolgenti. Vale la pena di ri portare per intero il raggruppamento di tutti i paesi nelle nuove aree suggerite da Kotkin, come spunto di riflessione geopolitica: L’Alleanza nordamericana (Canada e Usa); la nuova Lega anseati ca (Germania, Paesi Bassi, Danimarca, Finlandia, Norvegia e Svezia).; l’Impero russo (Russia, Bielorussia, Moldavia e Ucraina); i nuovi ottomani (Turchia, Turkmenistan e Uzbekistan); l’Oriente selvaggio (Afghanistan, Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan, Pakistan e Tagiki stan); l’Iranistan (Iran, Iraq, Bahrein, Striscia di Gaza, Libano e Siria); la Grande Arabia (Egitto, Giordania, Kuwait, Arabia Saudita, Palestina, Emirati Arabi Uniti e Yemen); il Regno di Mezzo (Cina e Taiwan); la 211 Cintura del caucciù (Cambogia, Indonesia, Laos, Malesia, Filippine, T hailandia e Vietnam); l’Arco del Maghreb (Algeria, Libia, Mauritania, Marocco e Tunisia); l’Africa sub sahariana; l’Impero sudafricano; le Re pubbliche bolivariane (Argentina, Bolivia, Venezuela, Cuba, Ecuador e Nicaragua); l’America liberale (Cile, Colombia, Costa Rica, Messico e Perù); i Paesi fortunati (Australia e Nuova Zelanda); gli Indipendenti (Francia, Brasile, India, Giappone, Corea del Sud e Svizzera); le Città Stato (Londra, Parigi, Singapore e Tel Aviv). L’autore coglie il senso delle nuove dinamiche in atto e non offendiamoci se include l’Italia nelle Repubbliche delle Olive, insieme a Portogallo, Spagna, Slovenia, Croazia, Montenegro, Kosovo, Macedonia, Grecia e Bulgaria. Forse una promozione ri spetto al nomignolo di Piigs, maiali, acronimo di Portogallo, Ita lia, Irlanda, Grecia e Spagna, affibbiato malignamente dai broker della Lehman Brothers, poi da l’“Economist” e da alcuni euroburocrati agli Stati con le economie più fragili durante lo schianto finanziario del 2008. Dopo il 1989 gli Stati nazione sembravano divenire residuali, in attesa della loro scomparsa nella post-storia che avrebbe dovuto aprire l’età della post-democrazia, del post-nazionale, quella della pace universale. Nella democrazia cosmopolita e distopica del futuro non si sarebbero più avuti né nazionali né stranieri, né cittadini né immigrati. E tutti gli umani sarebbero divenuti mo bili. È (stato) l’abbaglio ideologico del postmodernismo politico smontato con vis polemica, tra gli altri, da Pierre-André Taguieff nell’articolo L’immigrationnisme, dernière utopie des bien-pensants, pubblicato su “Le Figaro” del 9 maggio 2006.
La fiducia aumenta con l’uso perché ge nera un senso di responsabilità nella persona che la riceve; contribuisce ad alimentare scambi di lungo periodo, diffusi e generalizzati, favorendo solidarietà e cooperazione. La sfiducia innesca un meccanismo difficilmente arrestabile e sradicabile attraverso l’esperienza che può ridurre l’incertezza perché mo della le aspettative e le decisioni degli attori, ma porta verso il conflitto. Se sbagliare è parte inevitabile della scommessa, del processo di apprendimento, sospeso fra successo e delusione, chiedere troppo poco alla fiducia può essere altrettanto falli mentare che chiedere troppo e quindi dobbiamo fidarci della fiducia perché ciò rappresenta l’alternativa migliore e meno dolorosa nelle sue conseguenze.