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Una Dottrina Economica è meglio di una Dottrina Teologica

By Gianemilio Zincone
Correvano gli anni ‘70 del secolo scorso e chi scrive era allievo di belle speranze di un filosofo che sarebbe diventato famoso, Umberto Galimberti.
Il mio dieci in filosofia fu messo in discussione dalla interrogazione in cui definii il Marxismo una ideologia .
Galimberti si professava marxista (in effetti suo fratello Carlo era un bravo pittore di realismo socialista e chi scrive ama Aleksandr Deineka).
Alcuni compagni di scuola e amici erano rossi, come si diceva allora, la contiguità creava tentativi di convinzione del giovane liberale quale ero. Ovviamente falliti.
Eravamo turbolenti, anni di pallottole e spranghe, l’indimenticato amico Luca Hasda’ fu scaraventato giù dallo scalone del suo liceo milanese.
Alcuni amici erano, se si può dire, propensi agli errori e tra loro ci fu chi in nome del marxismo fu in qualche maniera vicino ai gruppi marxisti palestinesi.
Tra l’altro un Mischling, come si sarebbe detto ai tempi del caporale austriaco.
Per me bambino gli eroi si chiamavano Moishe Dayan e Golda Meir, una nonna inflessibile come mia nonna Giulia.
Allora, alla fine del liceo, ci fu il ritorno di Khomeini a Teheran.
Nei tempi turbinosi che seguirono, il capo degli studenti islamici pose le basi per la carriera che lo avrebbe portato ai vertici dello Stato, mentre un altro amico nella ambasciata americana assediata poneva le basi per la sua meno appariscente carriera tra i giocatori di ombre.
In quegli anni, colsi il virare dal terzomondismo marxista al terzomondismo islamista.
Vi fu Reagan. Molto più di un ex attore, un grande ruolo nel sindacato attori di Hollywood (ruolo economico e comunicativo immenso della industria cinematografica statunitense), due governatorati della California prima della presidenza .
Crollò l’URSS. Come sempre gli imperi si disgregano nel disordine, fu il ruolo consortile di due grandi (Reagan e Woitila) a impedire il peggio.
Il terzomondismo restò orfano.
Ma la rabbia degli oppressi (a volte dagli stessi capi da loro scelti) rimase un fuoco latente.
Di cui gli inventori degli scacchi si impadronirono sapientemente.
Chi agisce in nome di un Dio completamente ultraterreno ha una funzione che non tiene conto della umanità se non come mezzo.
Anche se il compianto Presidente Cossiga era affascinato dalla componente quasi teologica del Marxismo (lo ribadiva il figlio in una recente intervista), la differenza è incolmabile.
Soprattutto nella componente sciita (mi affascina il testo di Herny Corbin), dicono amici di quelle regioni quanto sia intransigente e disposta al sacrificio.
Male per gli aspiranti rivoltosi.
Mi fanno rimpiangere gli anni della guerra civile in Etiopia, del Frelimo, dei coraggiosi soldati cubani in Africa e delle imprese forsennate dei mercenari di Bob Denard.
Ho già segnalato il doloroso e complesso “Ritorno ai Patriarchi” di Arnold Zweig, visitai la DDR nel 1982 e non ne trassi una opinione solo negativa. Lo confesso.
Anche se ne sapevo l’oppressione dai racconti della mia prozia Inge.
Sono di parte.
Mio padre, liberale di sinistra, amico in gioventù di Marco Pannella e oppositore interno di Malagodi - cui era invece vicino mio nonno Emilio e il cugino Vittorio, mi aveva formato amico di Israele e del sionismo laico (allora non è esistevano altri).
C’era poca ombra quando al sole della Provenza l’amico - anche lui non dimenticato - TM mi disse dell’errore compiuto nell’ incentivare Hamas come contraltare dell’OLP. Ne aveva parlato, mi disse, con il suo amico personale e allora primo ministro.
Insomma, dopo tanti minuetti: smetttiamo la dottrina Delenda Carthago, patteggiamo con i resti della Unione Sovietica, lasciamo qualche zona di influenza e riconvertiamo al marxismo (a ciò che ne resta) i rappresentanti del terzomondismo.
Se deve essere uno Stato Palestinese (che non può essere del gruppo di Mahmoud Abbas invisi ai suoi stessi), meglio Marwan Bargouti - avversario, di Hamas - nemico.
Ed evitiamo di pretendere di decidere per le ex-colonie, ridimensioniamo la Francia.
Se esiste ancora una filosofia del pragmatismo, guardiamo gli errori e non permettiamo si reiterino.
Altrimenti l’uranio nigerino finirà a Teheran.

Radar Puglia e Guerra Fredda

By Francesco Mangusto
Mi è capitato circa un anno fa di trovarmi a tavola, per pranzo, nientemeno che con Mr. George McGovern, nella sua residenza romana; egli è attualmente ambasciatore degli USA presso la FAO, e qualche anno fa è stato concorrente di Nixon per l'elezione a presidente degli Stati Uniti. Il motivo del nostro incontro a pranzo era che Mr. McGovern era voluto tornare qualche mese prima a Cerignola, in provincia di Foggia, in Puglia, a rivedere dopo più di cinquant'anni i luoghi dove aveva "fatto la guerra" nel 1944. Da lì partivano buona parte delle "fortezze volanti" che bombardavano la Germania, e Mr. McGovern ne era stato uno dei comandanti. Di Cerignola aveva sempre conservato un ottimo ricordo, e ne era rimasto molto legato. In particolare ricordava l'azienda di mio padre, che era stata per loro molto utile ed efficiente per diversi lavori di impianti elettrici ed elettronici nei loro aeroporti; e ricordava mio padre, che gli era rimasto molto impresso.
Negli stessi cinquant'anni, d'altra parte, a me sono accadute diverse altre cose. Tra l'altro, insieme ad alcuni amici di Cerignola, abbiamo costituito a Roma una ventina di anni fa la "Associazione dei Cerignolani nel mondo"; per cui quando Mr. McGovern è tornato a Cerignola, lo abbiamo invitato alla nostra festa annuale a Roma l'otto dicembre del '99, e ne è derivato l'invito a pranzo.
In realtà l'incontro è durato più di mezza giornata; per cui c'è stato il tempo perchè egli mi spiegasse meglio, tra tante altre cose, il motivo della sua ammirazione per la gente di Cerignola, e per mio padre. Era rimasto meravigliato e sorpreso più che altro dalla insolita combinazione di cultura umanistica e di capacità e competenze tecniche che li caratterizzavano. E gli era rimasta impressa una battuta di mio padre, che anche io gli avevo spesso sentito ripetere, e cioè che un vero ingegnere deve essere anzitutto un vero filosofo! Il concetto sottostante era che secondo lui l'uomo si distingue dalle bestie anzitutto per la sua capacità di creare e poi per quella di adoperare attrezzi, strumenti e protesi; e sempre più efficaci, utili, comodi, efficienti; e che quindi un uomo è tanto più completamente uomo quanto più è capace di integrare, individualmente e collettivamente, cultura umanistica e cultura scientifica. Per mio padre cioè la tecnologia era il risultato di una sintesi intima e completa delle due culture e delle due metà del cervello; un uomo era tanto più uomo quanto più era alto il suo livello tecnologico.
Io ho cominciato a capire il valore ed il peso di questi discorsi di mio padre soltanto dopo molti anni. E cioè quando sono partito da Cerignola, mi sono iscritto alla facoltà di Ingegneria della "Sapienza" di Roma, ed ho cominciato a poter fare confronti con altri ambienti e persone, a vedere e valutare dal di fuori, e sempre più da lontano, mio padre, la mia famiglia, l'ambiente di Cerignola e della Puglia. E tuttora, quando torno in quei posti a visitare i miei tanti fratelli e nipoti, rimango ancora sorpreso anch'io; e capisco l'atteggiamento ed i commenti di Mr. McGovern.
Il primo ricordo che ho della mia infanzia è quello della mia maestra di prima elementare (una suora salesiana), che diceva con fare convinto ai miei genitori "Ma certo lui da grande farà l'ingegnere.....". E non mi sorprende: la prima cosa "da grandi" che io ricordo di aver visto da bambino a Cerignola era la Centrale Elettrica comunale; e le sue grandi macchine!
Mio padre aveva fatto tutta la prima guerra mondiale come ufficiale di fanteria. Poco dopo il suo ritorno a casa, attorno al 1920, il Comune di Cerignola decise la elettrificazione della città, ed affidò a mio padre la realizzazione della centrale elettrica comunale e di tutti gli impianti cittadini pubblici; per cui mio padre fino alla metà degli anni trenta fu il direttore della Centrale, e di conseguenza era considerato da tutti come una specie di mago, visto che aveva portato la luce notte e giorno in tutte le strade ed in tutte le case, al girare di un interruttore. Della Centrale elettrica io ricordo bene il fascino che mi ispiravano gli enormi motori diesel (che mi dovevano sembrare molto più enormi di quanto in realtà fossero), le grandi dinamo (allora si usava la corrente continua a 110 Volt), la grande stanza degli accumulatori, che servivano per l'avviamento dei motori (con delle grandi finestre sempre aperte: per evitare esplosioni dall'idrogeno sprigionato dagli accumulatori).
Ma della Centrale ricordo anche la preoccupazione che oscurava il viso di mio padre in occasione delle feste padronali, quando tutti mi sembravano invece allegri, sereni e rilassati; il fatto era che le grandi luminarie in tutta la città portavano il carico sulla Centrale elettrica ai limiti del massimo. E ricordo l'aria di soddisfazione sul viso di mio padre quando raccontava a mia madre del progetto di illuminazione elettrica del teatro Mercadante, che aveva curato personalmente (e di cui conservo gelosamente gli appunti). La mia impressione era che la soddisfazione non fosse solo di natura tecnica, ma anche artistica e culturale; la prima volta che sono stato a teatro avrò avuto sei anni, a vedere il Rigoletto; nel teatro con la nuova illuminazione elettrica.
Mio padre si interessava di tutto; conservo molti dei suoi libri: la Storia d'Italia di Guicciardini, I Promessi Sposi, i principali classici della letteratura italiana, il libro "Elettricità e Materia" del premio nobel J. J. Thomson del 1903, diversi testi di Radiotelegrafia, di cui uno del 1903, un testo sulla radioattività del 1906, un libro di dispense del corso di macchine elettriche di Galileo Ferraris, diversi testi di scienze naturali, alcuni libri fondamentali di matematica di Pinkerle, e tanti altri. E naturalmente conservo anche parecchi altri libri di svariate tecnologie: sulle macchine termiche, elettriche, idrauliche, eoliche; sui tubi elettronici e gli apparecchi radio; fino ai primi testi su l'elettronica, la televisione, le tecniche audio. Mio padre, come tanti altri, non credeva alla possibilità di sprigionare (o imprigionare) l'energia atomica, o di realizzare il "raggio della morte", di cui spesso si parlava sui giornali negli anni trenta. Ma mi aveva fatto balenare ed intravedere fin da molto piccolo la possibilità di realizzare i radar.
Durante la guerra, nei primi anni quaranta, Cerignola non è mai stata minimamente bombardata. I soliti bene informati, a guerra finita, ci spiegavano che il motivo era stato che il duomo di Cerignola, la cui cupola si staglia altissima sulla grande pianura del Tavoliere, serviva come riferimento visivo per i bombardieri americani sulla via del ritorno. Non posso dire se sia proprio vero, ma i discorsi nostalgici di Mr. McGovern, quando parlava dell'ansia che li premeva a bordo dei bombardieri al ritorno dai loro raid in Germania, che si allentava solo alla vista del duomo a centinaia di chilometri di distanza, danno un certo credito a questa diceria.
I dintorni di Cerignola invece furono spesso pesantemente bombardati, e specialmente Foggia, che era un importantissimo nodo ferroviario. E quindi noi, anche da ragazzi quali eravamo, abbiamo assistito, purtroppo, "in diretta", a parecchi furiosi combattimenti aerei tra i bombardieri alleati ed i caccia tedeschi; ed abbiamo visto molti aerei essere abbattuti, ed i loro occupanti lanciarsi coi paracadute. Non era quindi strano che nell'officina della azienda di mio padre arrivassero spesso i più strani strumenti ed apparecchi, prelevati dagli aerei abbattuti; e portati da noi per curiosità. Io ne ho avuti parecchi fra le mani (nel 1943 avevo 15 anni), ed era evidente che la loro tecnologia, sia che fossero di origine tedesca, che americana, era molto più avanzata e sofisticata di quella italiana (almeno quella che noi conoscevamo): i tubi elettronici e tutta la componentistica miniaturizzata, le tecniche delle altissime frequenze, le tecnologie avioniche, non le avevo mai nè viste, nè sentite menzionare o descrivere.
Ma in più mio padre sosteneva già a quei tempi che le guerre ormai si vincevano più che altro per quella che lui chiamava la "potenza industriale"; che per lui era anzitutto la capacità di immaginare, e quindi poi di progettare e realizzare, prodotti nuovi per nuove ed antiche esigenze; e basati su tecnologie nuove; ma anche e soprattutto la capacità di "metterli in produzione", di riprodurli rapidamente su larga scala, ed in modo economico ed affidabile; ed infine in modo da renderne l'impiego facile, comodo, "divertente", anche per "utenti" ignoranti, impreparati, difficili, come i militari. Mi ricordò questa sua idea quando nel novembre del '44 spuntarono i primi carri armati americani da Piazza Castello; e da quel momento fu per diverse settimane una sfilata ininterrotta, notte e giorno, di carri, mezzi, armi, materiali, rifornimenti, di ogni tipo; e tutti attrezzati e realizzati con tecnologie evidentemente molto superiori alle nostre; da quelle della meccanica pesante alle radiocomunicazioni, alla conservazione degli alimenti.
Ma fra i "reperti" degli aerei abbattuti io avevo sempre cercato di individuare qualche radar, o qualche suo componente: i ricetrasmettitori radio li esaminavo, e mi era già abbastanza chiaro cosa erano e come funzionavano. Di radar credo di aver avuto fra le mani soltanto uno dei primi modelli tedeschi, e molto mal ridotto: nient'altro. La voglia di radar e la relativa curiosità mi rimasero intatte fino alla fine della guerra.
Il 1980 è stato un anno cruciale nel lungo periodo della "guerra fredda". Tutti avevano ormai capito che il "disgelo" tra America ed unione Sovietica stava diventando serio ed effettivo.
Negli anni immediatamente precedenti ebbe luogo una importante gara internazionale, bandita dal governo dell'Unione Sovietica, per la fornitura e la messa in funzione di quattro grossi impianti di Sistemi di Controllo del Traffico Aereo per la regione di Mosca. L'occasione era che vi si dovevano svolgere le Olimpiadi: era una eccezionale occasione e dimostrazione di apertura verso l'occidente, ma anche di esposizione delle carenze esistenti. E naturalmente tutte le grandi aziende europee ed americane erano ansiose di partecipare e di aggiudicarsi la gara; in ballo in quel caso non c'era soltanto, come di solito, un interessante e ricco contratto, ma l'occasione di introdursi positivamente in un enorme mercato nuovo, che era stato fino ad allora completamente chiuso o inaccessibile; era questo per le aziende occidentali il primo significato del "disgelo".
La Selenia aveva una posizione più che buona nel mercato mondiale di questi sistemi, conseguita con vent'anni di duro lavoro e di capacità innovativa; poteva quindi legittimamente aspirare a vincere questa gara; negli anni '70 era arrivata ad essere la numero due al mondo per numero di aeroporti civili attrezzati e funzionanti coi suoi Sistemi di Controllo del Traffico Aereo, basati anzitutto sui suoi radar, che ne erano il prodotto principale e più originale. Li aveva venduti un pò ovunque nel mondo, a partire dai primi anni '60, e si era distinta ed affermata anche per qualità e prezzo; ma anche, e più che altro, per la sua dimostrata capacità di adattamento fantasioso alle esigenze del singolo cliente in decine di paesi diversi.
Ma la gara in Unione Sovietica era diversa: non vi erano importanti e decisivi soltanto il prodotto e la credibilità del fornitore; era in ballo la grande politica mondiale!
All'inizio delle discussioni e presentazioni coi responsabili del governo sovietico non si era capito il motivo di un certo loro imbarazzo: sembrava che volessero tenere la gara il più possibile sotto silenzio, mentre tutti si aspettavano che la sbandierassero come dimostrazione di apertura all'occidente. Soltanto dopo diversi incontri, anche informali, il mio Direttore Marketing riuscì a capire cosa c'era dietro: i responsabili sovietici non gradivano che apparisse evidente che la loro industria non era in grado di progettare e produrre quei Sistemi, con le caratteristiche di qualità, ma più che altro di affidabilità, che le Olimpiadi esigevano: col traffico aereo non si scherza; e non potevano permettersi che i Sistemi di Controllo del Traffico Aereo rallentassero l'afflusso dei tifosi di tutto il mondo, o, peggio, provocassero o non evitassero incidenti; erano quindi presi tra l'incudine di volere un Sistema efficiente ed affidabile, ed il martello di non dimostrare che non erano capaci a realizzarlo. E quindi cercavano di indire e gestire la gara il più possibile "sottovoce", lontano dai clamori e dai riflettori della politica e della stampa internazionali; atteggiamento quanto mai lontano, ed anzi opposto, da quello che gli occidentali, ed in particolare gli americani, si aspettavano, o, peggio, capivano; per nostra fortuna.
Fu infatti così che fu decisa la nostra strategia di marketing per quella gara, che ci sembrava persa in partenza. E quindi da allora, e per mesi, tutte le nostre presentazioni e proposte furono svolte sulla base di due elementari criteri:
* illustrare il nostro Sistema, le sue caratteristiche e prestazioni, in tutti i dettagli, insitendo più che altro sulla sua affidabilità (portando come referenze le esperienze di tanti aeroporti nel mondo)
* ripetere e ribadire in ogni modo ed in ogni occasione, formale ed informale, che però la Selenia non poteva contare su nessun valido supporto politico o governativo (pur essendo una azienda IRI, a partecipazione statale!), come certamente sarebbe accaduto per tutti i nostri concorrenti.
Il nostro messaggio era quindi doppiamente rassicurante: affidabilità del prodotto ed assenza di clamori politici. Il fatto poi che la Selenia non potesse fare affidamento su nessuna promozione o aiuto politico o governativo, che da tutti in Selenia e fuori veniva considerato il maggior limite alla competitività dell'azienda, era ben chiaro e noto a tutti gli operatori ed addetti di questi settori in tutto il mondo; il peso politico all'estero del nostro governo era allora praticamente nullo, più che altro perchè le contropartite che poteva offrire non esistevano. Quindi noi di solito nelle gare internazionali eravamo "soli"; ma questo molte volte era un vantaggio; e nel caso della gara per le Olimpiadi di Mosca lo fu in modo eccezionale. Ma quello che serviva per affermarsi erano tutte e due le "gambe": fortissima competenza tecnologica e grandissima cultura "umanistica".
I due nostri criteri di marketing per la gara di Mosca funzionarono alla grande: essi interpetravano esattamente quello che i funzionari sovietici volevano sentirsi dire! E di conseguenza, durante tutto il periodo delle presentazioni ed offerte della gara, tutte le volte che i più autorevoli rappresentanti politici e governativi (in clima di "disgelo"!), in particolare francesi ed americani, si impegnarono attivamente per perorare la causa delle loro aziende nazionali, più si impegnavano, e più, senza saperlo, lavoravano per noi: sempre di più allarmavano ed indispettivano i funzionari di Mosca!
Il risultato fu che la Selenia vinse la gara, e che di clamore in proposito negli ambienti politici e sulla stampa non ce ne fu affatto: nessuno aveva interesse a strombazzare l'esito, tranne la Selenia, che però aveva vinto proprio per non far chiasso! Da allora la Selenia si è posizionata molto bene nei mercati dell'est, e non solo per i Sistemi di Controllo del Traffico Aereo.
La Selenia era stata fondata nel 1960, come risultato della fusione della sua azienda-madre, la Microlambda, e della società che di questa era "figlia": la Sindel. L'una società era "madre" e l'altra "figlia" per il fatto che la Sindel era stata creata da un gruppo di "fuorusciti" dalla Microlambda. La quale era stata fondata nel 1951, come "joint-venture" fra la finanziaria Finmeccanica dell'IRI e la Raytheon americana. L'iniziativa era stata chiaramente favorita dai governi ed in particolare dagli organismi militari, nel clima del Piano Marshall, e della necessità per la NATO, costituita da poco, di disporre di basi di appoggio e supporto tecnologico, logistico e produttivo in tutti i paesi europei. Ma in Italia questo orientamento generale aveva trovato un interpetre particolarmente geniale: il professor Carlo Calosi, che meriterebbe una biografia intera a parte. Il professor Calosi aveva dovuto abbandonare l'Italia e si era spostato negli Stati Uniti durante la guerra; ma nel 1951 era già diventato "vice-president" della Raytheon, e Presidente della sua "Microwave and Power Tube Division", che per l'epoca era il concentrato più alto delle più critiche ed avanzate tecnologie radaristiche. La Microlambda nacque attorno ad un primo grosso contratto di produzione su licenza di radar della Raytheon, destinati ai "marines" e commissionati dalla NATO; e si trattava di quanto ci fosse allora al mondo di più avanzato nelle tecnologie radar. La Microlambda ne produsse varie centinaia in pochi anni, migliorandone anche alcune prestazioni; per esempio le antenne, che poi costituiranno uno dei punti di forza delle capacità tecnologiche della Selenia. E cominciò a produrre fin dall'inizio anche radar per applicazioni civili, in particolare per la navigazione delle navi medio-grandi, inizialmente ancora su licenza Raytheon. Ma la lungimiranza del professor Calosi puntò da subito ad un obiettivo molto più ambizioso, che pochissimi altri in Italia ed in Europa si sentirono o furono capaci di perseguire in condizioni analoghe: creare in Italia gradualmente una capacità completamente autonoma di progettazione e produzione di radar, in competizione mondiale a quella della Raytheon; e come seguito sviluppare analoghe capacità in tutti gli altri campi e settori applicativi che potevano derivare dalle tante tecnologie di base che concorrono a costituire i radar. Che io sappia, nessuno dei collaboratori, anche i più diretti ed intimi, del professor Calosi, lo ha mai sentito esplicitare questo concetto, o esternare questo sogno; ma che fosse il motivo ispiratore di tutta la sua azione era chiaro a tutti.
Quello che però più ci sorprendeva era l'atteggiamento in proposito della Raytheon: tutti ci aspettavamo una resistenza più o meno esplicita; ed invece i comportamenti erano esattamente contrari! Probabilmente esisteva una qualche forma di accordo, non so quanto esplicito, con i vertici della Raytheon, e secondo me molto intelligente e lungimirante, di accettare la sfida della concorrenza fra le due aziende; perchè di una vera sfida si trattava: intellettuale, tecnologica, produttiva; ma anzitutto organizzativa e gestionale; ed anzitutto di capacità di management dell'innovazione. I tempi di allora lo richiedevano e lo permettevano: i problemi da risolvere e le difficoltà da dominare superavano di molto i danni eventuali derivanti dalla concorrenza: quello che ci univa era molto di più di quello che ci poteva dividere; e gli aiuti che ci potevamo offrire reciprocamente in termini di soluzioni innovative era molto più di quello che ci potevamo sottrarre in termini di clienti e contratti singoli.
Sta di fatto che io stesso, in tutte le occasioni dei tanti contatti ed incontri con molti degli uomini-chiave delle divisioni radaristiche della Raytheon, ho discusso e collaborato e chiesto i loro pareri ed aiuti per numerosi progetti nostri originali, molto avanzati tecnologicamente e sistemisticamente, e che potevano chiaramente costituire delle minacce di mercato verso di loro; e li ho sempre trovati quanto mai collaborativi, disponibili, e soprattutto leali; anzi, ci rispettavano e ci ascoltavano (soprattutto me) a tal punto, da essere spesso in atteggiamento "apprenditivo" verso di noi e di me. In realtà si era diffuso nelle due aziende un sano ed intelligente atteggiamento da "dilemma del prigioniero": in prigione, fra reclusi è comunque meglio collaborare che farsi la guerra; si era capito che i "nemici" non eravamo reciprocamente noi: i nemici erano "fuori"; e tra l'altro erano anzitutto le tante cose che non sapevamo ancora fare, i problemi irrisolti, i limiti dello "stato dell'arte", i problemi sistemistici ed operativi ancora pendenti: era chiaro che insieme queste enormi muraglie di difficoltà e di problemi li potevamo scalare meglio che separati, o peggio in conflitto.
Io ero stato assunto in Microlambda a novembre del 1956, pochi mesi dopo il grande esodo dei "transfughi", che includevano anche il professor Calosi; e che avevano appena fondato a Roma la Sindel, finanziati dalla Edison. Con la Sindel quindi noi in Microlambda per quattro anni, fino alla fusione ed alla nascita della Selenia, ci facemmo una dura concorrenza. La Microlambda per assumermi mi fece "ponti d'oro", anche perchè ero il primo ingegnere italiano che si volesse occupare di radar non da autodidatta. In realtà era successo che io, consapevolmente, avevo deciso di specializzarmi in radar già durante il terzo anno degli studi di ingegneria, quando era uscito il primo bando per un corso di specializzazione post-laurea sulle tecnologie radar, di due anni, finanziato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e dal Ministero della Difesa. E quindi avevo orientato i miei piani di studio, la tesi di laurea, ed i collegamenti coi professori, in modo da essere quasi sicuro di essere ammesso al corso di specializzazione, che era a numero chiuso, per pochissimi allievi, e per di più con una ricca borsa di studio (circa il doppio dello stipendio iniziale di un neolaureato!). Per cui non ho avuto nessun problema a "trovare lavoro"; anzi, avevo altre numerose offerte di lavoro da aziende molto prestigiose; avevo l'imbarazzo della scelta; ma la "voglia di radar" la avevo in corpo fin dai miei quindici anni; e solo in Microlambda era chiaro che la potevo soddisfare.
Appena fondata nel 1960, fu subito chiaro che la Selenia aveva di fronte due grandi problemi: la sua scarsa notorietà e la mancanza di prodotti suoi per il mercato internazionale. Negli anni '50 in Microlambda avevamo imparato a produrre molto bene prodotti ad altissima tecnologia come i radar più avanzati; ed anche a progettarne alcune parti nuove molto critiche; ed avevamo imparato a progettare sia in funzione della produzione che dello specifico cliente. In Microlambda ed in Sindel si erano affinate numerose e notevolissime competenze tecniche e sistemistiche in campo radar; ma nessuno ci conosceva.
E nel frattempo però avevamo afferrato la cosa principale: per essere autonomi con prodotti di nostra concezione e realizzazione dovevamo disporre di una forza progettistica non piccola; più che altro perchè i radar sono la sintesi di tante tecnologie molto diverse, ciascuna delle quali richiede una dimensione minima di uomini specializzati e di attrezzature specifiche. Ma per poterci pagare questa capacità minima di base avevamo bisogno quindi che il fatturato fosse al di sopra di una soglia non piccola; e questo poteva avvenire soltanto puntando molto oltre il mercato italiano: dovevamo guardare da subito al mercato mondiale. Per il quale però all'inizio non eravamo nessuno, e non avevamo prodotti. All'atto della fusione che dette luogo alla Selenia io ero il capo dei Sistemi Radar in Microlambda; fui subito trasferito allo stabilimento di Roma, dove si decise di concentrare la progettazione, lasciando la produzione a Napoli; e diventai prima capo della progettazione Radar di Avvistamento, e poi di tutti i sistemi radar. Dieci anni dopo ero il Direttore della Divisione Radar.
In dieci anni sviluppammo una quantità incredibile di nuovi sistemi radar, sia per uso civile che militare: in un incontro natalizio con le famiglie, a mia moglie che gli chiedeva come me la cavavo sul lavoro, il professor Calosi rispose: "benissimo, anzi fin troppo: le aziende spesso muoiono di inedia, ma noi rischiamo di morire di indigestione!". Si riferiva alla grande quantità di nuovi modelli, nuovi progetti, nuove tecnologie, nuove soluzioni sistemistiche che noi sfornavamo continuamente. Ed il bello era che ciò accadeva per una scelta cosciente ed in modo programmato.
Avevamo cioè attivato delle forme organizzative e gestionali (specialmente verso gli ingegneri progettisti), che andavano incontro specificamente all'obiettivo della ricerca di notorietà internazionale, e della creazione rapida di tanti prodotti nuovi. Il metodo era abbastanza impegnativo; avevamo deciso di selezionare ed assumere un notevole numero di laureati, prevalentemente ingegneri, scegliendoli anzitutto in base alle loro tendenze "imprenditoriali; e per destinarli a fare i progettisti ed i capi-progetto ed i capi-programma. E contestualmente attivammo, e rendemmo chiara agli interessati, una politica di "spin-off" interni: attorno alle varie linee di nuovi prodotti, man mano che si affermavano e crescevano, avremmo creato delle nuove Divisioni: c'era spazio di crescita per tutti, purchè avvenisse sulla base della crescita aziendale; e così è avvenuto; addirittura ne sono derivate nuove aziende: la Alenia Spazio, la Alenia-Marconi Communications. Naturalmente sapevamo che la crescita costa, ma per tutti gli anni '60 potevamo contare su un secondo ricco contratto di produzione su licenza Raytheon per la NATO: si trattava del sistema missilistico HAWK. Ma sapevamo anche che alla fine degli anni '60 non potevamo, ma anche non volevamo, vivere altro che dei nostri prodotti. Il professor Calosi ci aveva spiegato che gli americani avevano dieci anni per andare sulla luna, e noi dieci anni per essere capaci di mettere i piedi in terra!
Ma credo che ci siamo riusciti. Dai primi anni '70 tutta la nostra produzione era su progetti nostri (ed era venduta all'estero per il 70%); anzi, io ho avuto la soddisfazione in quel periodo di firmare più di un contratto di licenza di produzione di nostri radar per il controllo del traffico aereo alla Raytheon.
Nel '61 si era saputo che l'Aeronautica Svedese stava avviando un progetto per la realizzazione di una rete di sorveglianza aerea radaristica, per l'avvistamento lontano (più di 200 chilometri) di aerei a bassa quota, con particolari e severi requisiti di prestazioni; volevano tempi di allerta e di reazione del loro sistema di difesa eccezionalmente brevi, ed una affidabilità altissima del sistema (e specificata e condizionante contrattualmente). Lo scoglio principale, fra tanti, era però concettuale, sistemistico, e di conseguenza tecnologico: si trattava non solo di avvistare e di misurare la distanza e l'azimut degli aerei incursori, ma di misurarne anche la quota sul terreno, nella singola passata di antenna (per ridurre i tempi di reazione), in presenza dei ritorni radar dal terreno, che sono molto più forti dei segnali degli aerei. Noi eravamo già molto capaci di dominare le tecniche "MTI" (moving target indicator), che, basandosi sull'effetto Doppler, permettono di cancellare gli echi "fissi" del terreno, ed evidenziare solo quelli degli oggetti "mobili". Ma nè noi, nè nessuno al mondo si era ancora cimentato con il problema di misurare anche la quota in queste condizioni; ed a prima vista il problema sembrava irresolubile. Quando il nostro Direttore Marketing ci informò di questo progetto, l'opinione prevalente fu che avevamo pochissime speranze di successo, ma che ci conveniva partecipare comunque con una proposta, purchè "decente", per cominciare a farci conoscere. Nel frattempo si cominciò a capire e sapere che i candidati principali al contratto erano le ditte inglesi, che in quegli anni si sentivano e si presentavano come le depositarie di tutto lo scibile radaristico al mondo; ma anche che esse stavano cercando di convincere gli ufficiali dell'Aeronautica Svedese ad eliminare il requisito della misura della quota in presenza di echi fissi, semplicemente perchè non era possibile soddisfarlo.
Questo fu per noi lo stimolo principale per approfondire l'analisi: se trovavamo una soluzione, la gara era nostra.
E quindi una domenica pomeriggio di quel novembre '61, io mi chiusi nel salone di casa mia, e chiesi a mia moglie di non essere disturbato per qualche ora. La mattina seguente chiesi che fosse convocata una breve riunione, a cui parteciparono tutti i principali direttori interessati dell'azienda, ed illustrai la mia soluzione; la conclusione fu che dopo mezz'ora di discussione il Direttore Generale concluse: "OK, abbiamo la soluzione, andiamo a lavorare per preparare la proposta". La Selenia vinse questo contratto fondamentale, che la presentò subito sul mercato internazionale radaristico, come un "outsider" agguerritissimo. Più che altro perchè il problema degli attacchi aerei a bassa quota era il principale problema di quegli anni; e poi perchè l'Aeronautica Svedese era considerata, e giustamente, uno dei clienti più difficili, competenti, esigenti, del mondo.
Il prodotto che ne derivò si chiamò Argos 2000, anche perchè uno dei criteri di selezione nella gara, e di progetto, era il costo totale nel ciclo di vita del sistema, che quindi doveva essere il più lungo possibile, ma anche il più economico complessivamente; sta di fatto che qualche anno fa ho avuto la soddisfazione di essere informato che nel 1990 era prevista una verifica da parte dell'Aeronautica Svedese per decidere se prolungare la vita operativa ed economica del sistema; ed è stato deciso di prolungarla fino al 2015!
Il sistema è stato brevettato, credo che ancora oggi rappresenti una soluzione di avanguardia per l'avvistamento e la misura della quota degli aerei a bassa quota, ma più che altro ci aprì in Selenia la strada per un enorme filone di sviluppo sistemistico, tecnologico, e quindi commerciale; ed a livello mondiale.
Da quella esperienza sono derivati moltissimi altri prodotti e sistemi nostri. Anzitutto in campo militare, per la scoperta aerea lontana, ma anche per la "difesa di punto"; poi per i radar di inseguimento militari e civili, per quelli dedicati alla missilistica ed ai sistemi d'arma, per gli usi strumentali civili, come i radar meteorologici e quelli per la ricostruzione di traiettorie; infine per i tanti modelli di radar navali militari, per avvistamento, sorveglianza, inseguimento, controllo dei sistemi di difesa e missilistici.
Ma i prodotti che più ne sono stati influenzati, beneficiati e radicalmente reimpostati, sono stati i radar per il controllo del traffico aereo, per uso anche militare, ma prevalentemente civile. Essi sono diventati il prodotto di punta della Selenia, ed il suo veicolo principale di penetrazione nei nuovi mercati.
L'altro filone di sviluppo fondamentale sono stati i radar navali militari. Nella recente guerra del Kosovo, un mio amico ammiraglio mi ha fatto sapere che i radar navali che meglio scoprivano e vedevano gli aerei sulle montagne della Jugoslavia erano quelli delle nostre navi, molto più di quelli delle altre flotte della NATO. Il motivo è semplice: la nostra Marina Militare ci aveva chiesto fin dai primi anni '60 la soluzione di un altro problema molto critico, che per le altre Marine era tale solo in condizioni particolari, ma che per la Marina Italiana era, ed è, il problema principale: è quello di avvistare eventuali aerei attaccanti "in acque strette" (come l'Adriatico) quando volano sulle montagne. Noi nei primi anni '60 avevamo sviluppato una intera nuova generazione di radar navali per queste situazioni, basati sempre sull'effetto Doppler, ma anche su paradigmi sistemistici nuovi ed originali (la compressione d'impulso coerente); anche questi sono stati brevettati. Ancora oggi questi sistemi, opportunamente aggiornati tecnologicamente, vengono apprezzati, e venduti alle marine di tutto il mondo.
Ma negli anni '60 erano state messe anche le basi per la "diversificazione" della Selenia. E quindi fin dai primi anni '70 dalla divisione radar "germinarono" tante altre divisioni: la divisione attività spaziali (noi avevamo realizzato tutta l'elettronica di bordo del satellite Sirio, le antenne dei satelliti americani Intelsat, quelle dei satelliti europei Meteosat, e tante altre parti essenziali, per bordo e per terra); la divisione sistemi d'arma (missilistici), che poi ha sviluppato il missile antiaereo Aspide ed i relativi sistemi di guida; la divisione elaborazione dati, che ha sviluppato i sistemi di elaborazione per il controllo del traffico aereo, e per il comando e controllo delle navi militari; la divisione informatica e telecomunicazioni. La struttura organizzativa dell'azienda si dovette adeguare: si arrivò ad una struttura a matrice, e quindi si dovettero creare e rafforzare le direzioni centrali "di staff".
Ma anzittutto si decise di adeguare, sviluppare, e rafforzare tutto il sistema organizzativo e gestionale per la strategia dell'innovazione; la capacità di innovare era il nostro principale prodotto; noi volevamo, e ci siamo riusciti, vendere innovazione (ma solo nei campi dove ci sentivamo più forti e consolidati); e dicevamo che il nostro problema non era il "management della conoscenza", ma il "management della ignoranza": come far fruttare quello che ancora non sapevamo, e che non sapevano ancora nemmeno i nostri concorrenti.
Una decisione molto intelligente ed efficace riguardò la struttura organizzativa per la gestione dell'innovazione, che fu affrontata con un misto di strutture organizzative e di procedure operative specifiche. Furono create non una, ma tre direzioni centrali.
La prima fu la direzione tecnica, di cui io fui messo, e ne sono rimasto per venti anni, a capo; e che era la più grande e complessa. Essa includeva i laboratori centrali specialistici, al servizio di tutte le divisioni, e che racchiudevano tutto il know-how di base dell'azienda; e comprendeva anche tutte le attività e le risorse per la ricerca tecnologica nei campi già presenti nei nostri prodotti; per esempio sull'uso del CAD (computer aided design) nelle nostre produzioni, sui micro circuiti a grande integrazione, sui primi microprocessori nei nostri apparati; ed includeva anche le attività di standardizzazione dei sottoassiemi comuni a più divisioni, come per esempio gli alimentatori, che allora rappresentavano circa il 30% del costo di fabbrica dei nostri apparati; ma in più era responsabile del processo di selezione dei laureati ed in particolare degli ingegneri, dei rapporti con l'università e gli enti di ricerca, della promozione e gestione del patrimonio brevettuale dell'azienda, della Rivista Tecnica. Era una direzione di più di duemila cinquecento dipendenti, di cui più di ottocento ingegneri, prevalentemente progettisti.
La seconda direzione fu la direzione ricerche di base, a cui erano stati intelligentemente affidati soltanto due filoni fondamentali di sviluppo: i materiali speciali per i nostri laboratori (per esempio le ferriti a microonde) e l'elettroottica.
La terza era una direzione originale ed "anomala": era la direzione per lo sviluppo delle nuove attività, cioè di nuovi prodotti in nuovi mercati; era la direzione centrale della diversificazione. Era una direzione molto piccola numericamente, ma molto potente, influente, condizionante per le altre direzioni centrali e per le divisioni. Il concetto di fondo per la gestione della innovazione era che le scelte fondamentali per gli orientamenti strategici e gli investimenti dovevano avvenire attraverso un processo continuo e dialettico fra enti difensori di orientamenti diversi. Per cui, per esempio, tutte le proposte di investimenti di una certa dimensione, provenienti da noi o dalle divisioni, per essere prese in considerazione dalla direzione generale, dovevano avere l'approvazione della direzione sviluppo nuove attività; la quale però, se esprimeva perplessità o contrarietà, doveva anche spiegare e documentare quali alternative di investimento erano più promettenti in quali campi nuovi per la Selenia. E' stato così che la Selenia è entrata, tra l'altro, nel campo dei sistemi militari e civili basati sulle tecnologie dell'infrarosso, o in quello degli elaboratori paralleli.
La diversificazione ha fatto esplodere la dimensione, il valore, la notorietà, la solidità della Selenia. E tutti quelli che dagli anni '60 ci aveveno creduto hanno fatto carriere più che brillanti.
Ma nel frattempo è cambiato il contesto; ed in particolare quello italiano, politico ed industriale. In realtà la Selenia nel frattempo era diventata "troppo grande" per le capacità di conduzione strategica di management della nuova classe politica e manageriale pubblica; per cui, in più, è arrivata la stagione delle "privatizzazioni all'italiana". E' stato fatto per esempio, secondo me, l'errore di eliminare l'IRI e le partecipazioni statali dal panorama industriale italiano, senza poterlo sostituire con null'altro. Si è partiti dall'idea che lo Stato doveva allontanarsi dalla gestione diretta dell'economia, anche di quella delle alte tecnologie, che sono rischiose e con ritorni lunghi; e si è raggiunto, consapevolmente o meno, il risultato chiaramente opposto; per esempio, le responsabilità di promuovere e finanziare lo sviluppo, in particolare nel mezzogiorno, invece di pesare su una "banca" di investimenti, come era l'IRI, adesso gravano direttamente sul Ministero del Tesoro; l'IRI era pur sempre un ente di diritto privato, benchè di proprietà dello Stato. Si era partiti dalla costatazione che le partecipazioni statali erano diventate uno strumento di sottogoverno, di assistenzialismo, di corruzione, in mano a quegli ambigui organismi privati che in Italia sono i partiti politici (e non dello Stato), e si è creduto, o si è fatto credere che "privatizzando" (all'italiana) questi problemi sarebbero stati risolti. In realtà bisognava, e tuttora bisogna, far funzionare lo Stato, al di sopra ed indipendentemente dai partiti, ed allora la formula IRI poteva e può benissimo funzionare; e secondo me è indispensabile per arrivare in un futuro non molto prossimo ad attivare una economia completamente liberalizzata ed un capitalismo diffuso e non familiare come quello che abbiamo; si è cioè "buttato il bambino con l'acqua sporca". Sta di fatto che certe attività, come quelle legate alle tecnologie avanzate, che però sono il motore dello sviluppo, comportano intrinsecamente rischi alti e tempi di ritorno lunghi; tanto da non poter essere ragionevolmente affrontati e sostenuti da un capitalismo gracile e povero di esperienza e cultura industriale matura come quello italiano attuale. L'evoluzione in questo senso sta avvenendo, ed è anzitutto di natura culturale, ma anche strutturale. Nel frattempo, e proprio per favorire anche involontariamente questa evoluzione, secondo me è un fatto positivo che il nocciolo più critico e pregiato della Selenia sia oggi praticamente gestito dalla Marconi inglese: ci serve lo straniero. La Marconi è sicuramente un'azienda seria e competente, e capace di sviluppare tutte le potenzialità esistenti, e "fare cultura", anche verso i nostri "strateghi" politico-industriali.
Ma sulla storia della Selenia c'è comunque ancora tanto da scrivere e da riflettere ed imparare, e non solo per chi ci ha vissuto; e mi propongo di farlo, entro le mie capacità ed i miei limiti. E la "morale" principale che ne ho derivato e che ho in mente è condensata nel titolo preliminare che avrei immaginato per questo libro. Il titolo è "Per entrare nel ventesimo secolo". Il senso di questo strano titolo sta nel parafrasare un altro titolo di un libro molto più celebre e di un autore ben più illustre. Si tratta del libro del filosofo francese Edgar Morin, intitolato "Per uscire dal ventesimo secolo", che in Francia è uscito nei primi anni '80. In esso Morin ha cercato di delineare con un anticipo di vent'anni quale sarebbe stata la situazione mondiale oggi, da un punto di vista politico, culturale, sociale; ed alcune illuminazioni sono davvero notevoli. Io sostengo però che nell'ultimo dopoguerra la società italiana e le sue culture, in particolare quella economico-industriale, sono partite con un ritardo di almeno un secolo rispetto a quelle degli altri paesi industrializzati; e la manifestazione più evidente ne è l'atteggiamento verso la tecnologia: timore del nuovo ed incontrollabile, oppure fideismo irrazionale; da allora abbiamo cercato di "entrare nel ventesimo secolo". Ma affermo anche che questo gap sta essendo abbastanza rapidamente colmato, anche tenendo conto che nel frattempo gli altri paesi avanzano ancora, e rapidamente. L'esperienza della Selenia, insieme ad alcune pochissime altre, ha costituito a questi effetti il motore e l'esempio principale di questa veloce rincorsa. Il mio libro sulla storia della Selenia dovrebbe testimoniarlo e dimostrarlo.. 
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